Alejandro Agag è favorevole all'energia nucleare - Quattroruote.it

2022-09-16 21:37:12 By : Mr. Jacky Xiu

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Oggi la città è il perimetro ideale per l’auto elettrica. Oltre che un contesto destinato a cambiamenti radicali, fatti di spazi da riconvertire e sostenibilità da reinventare. Auto e città, insomma: questo il nostro osservatorio per sapere dove - e come - vivremo domani

Conosciuto come “l’uomo che ha inventato le corse per le macchine elettriche”, Alejandro Agag è stato ed è, in realtà, molto di più: imprenditore, politico, proprietario di team di auto da competizione e di squadre di calcio, finanziere e interlocutore di istituzioni ai più alti livelli. Nato a Madrid nel 1970 da padre algerino e madre spagnola, ha studiato tra la città natale, Parigi e New York, laureandosi in Economia prima di avvicinarsi al mondo della politica e di diventare assistente del primo ministro spagnolo Aznar (la cui figlia avrebbe poi sposato). Nel 1999, all’età di 28 anni, diventa il più giovane parlamentare europeo della storia del proprio Paese, ma l’esperienza politica gli sta presto stretta: nel 2001 lascia, infatti, il proprio seggio, per entrare in affari con Flavio Briatore e acquisire i diritti televisivi della F.1 per la Spagna. È il primo passo verso il motorsport, mondo che lo vede acquistare il team Campos Racing di GP2 e trasformarlo nella Barwa Addax, squadra di successo; dopo una parentesi calcistica, con l’investimento nella squadra inglese QPR (insieme con Briatore e il magnate indiano della siderurgia Mittal), Agag ha l’idea di lanciare un campionato per monoposto completamente a propulsione elettrica. Nonostante lo scetticismo iniziale, la sua Formula E prende piede, tanto da attrarre, complice il momento favorevole a nuove forme di mobilità, un numero crescente di grandi costruttori automobilistici. Quest’anno, l’imprenditore spagnolo, tuttora ceo della Formula E, si è lanciato in una nuova avventura, creando Extreme E, categoria di Suv full electric che corrono in località ambientalmente critiche con lo scopo di sollecitare l’attenzione su di loro e di finanziarie iniziative di ecosostenibilità. Un’altra scommessa riuscita, a giudicare almeno dal livello dei piloti coinvolti (Loeb e Sainz Sr. al volante, Hamilton, Rosberg e Button come titolari di squadre). Ma Agag, paladino dell’elettrificazione, come abbiamo detto, è anche un interlocutore privilegiato del mondo politico, ambientalista e imprenditoriale: ed è proprio in questa veste che abbiamo voluto raccogliere le sue opinioni, raggiungendolo online nel suo ufficio di Londra.

Che impressione ha ricavato da Cop26, il vertice sul cambiamento climatico che si è tenuto di recente a Glasgow al quale ha preso parte: in merito ai risultati ottenuti, vede un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? Io lo vedo mezzo pieno. Sono molto pragmatico, in queste cose. Se ascoltiamo gli attivisti, ricaviamo l’impressione che tutto sia catastrofico, che tutto vada male e che nessuno stia facendo niente: anzi, loro sostengono che è “la gente” a dover governare, non i politici. Dimenticando, però, che si tratta di politici eletti in sistemi democratici dalla gente stessa, mentre, con tutto il rispetto, non credo sia stato scelto da un vasto numero di elettori il capo di Greenpeace. Magari un primo ministro non è stato scelto con il mio voto, ma almeno ho partecipato alla sua elezione. Dunque, per prima cosa bisogna rispettare la democrazia e fidarsi di quelli che abbiamo eletto. Seconda cosa: si fa quello che si può fare e si sta facendo tanto. Ovviamente, non possiamo distruggere il nostro sistema da un giorno all’altro, per crearne uno che non sappiamo neppure esattamente in che cosa debba consistere. Ciò non toglie che la direzione verso la transizione a un mondo molto diverso da quello di oggi è chiara. Quindi, penso che la Cop stia facendo piano piano dei progressi importanti e che ogni Cop rappresenti un passo avanti. Non dimentichiamo che ci sono stati altri summit, come la Cop17 tenuta nel 2011 a Durban, in Sudafrica, di cui oggi non si ricorda praticamente nessuno. Adesso, invece, le Cop sono eventi mondiali, che tutti seguono e di cui tutti parlano e già questo è un buon risultato.  

A proposito di politica e democrazia: lei è stato europarlamentare. Che opinione ha del funzionamento delle istituzioni europee? Stanno lavorando correttamente, in tema ambientale? Bisogna dire che le istituzioni europee hanno molti limiti al loro raggio d’azione. Il processo decisionale è basato soprattutto su un sistema intergovernamentale, ma, alla fine, sono i governi dei Paesi membri che prendono le decisioni importanti. La Commissione fa il suo lavoro, il Parlamento europeo il suo e in certe aree, in cui hanno più potere, entrambi agiscono bene, però sono sempre i governi nazionali il fattore decisivo.

Molti hanno puntato il dito contro Cina e India, indicandoli come freni al cambiamento nella lotta al cambiamento climatico. Però sono Paesi enormi, con problemi enormi: è corretto considerarli degli ostacoli? Oppure costituiscono un alibi per mascherare le scarse volontà anche di altri Stati? Io penso che puntare il dito contro qualcuno sia sempre ingiusto. C’è gente che, ovviamente, vuole fare dei grandi passi, ma è altrettanto ovvio che è più facile fare dei progressi per una Norvegia che per l’India, dove più di un miliardo di persone deve riuscire a mangiare ogni giorno. E la priorità del governo indiano è dare a tutta questa gente i mezzi di sostentamento, mentre quella del governo norvegese è ben diversa. È molto facile dire al Brasile: “Non disboscare le foreste!”. E magari lo afferma la Francia, dove non rimangono più alberi, quando prima si diceva che uno scoiattolo poteva attraversarla tutta, da Nord a Sud, senza mai toccare terra. Quelli che hanno già tagliato gli alberi in massa dicono agli altri di non tagliarli… Questo atteggiamento è sempre rischioso.  

Nella sua attività, ha contatti con Paesi di tutto il mondo, dall’America Latina all’Africa e all’Asia: com’è possibile pensare a una decarbonizzazione globale quando in molte di queste aree vivono ancora milioni di persone senza elettricità? Secondo me, serviranno tecnologie nuove, che oggi ancora non esistono, per arrivare alla decarbonizzazione. Prima, dobbiamo capire due cose. Una è che bisognerà immettere tanta CO2 nell’atmosfera, per arrivare alla decarbonizzazione: sembra una contraddizione, ma è così. Questo perché, per esempio, per realizzare i pannelli solari si genera molto carbonio: ma per questo non dovremmo più costruirli? Lo stesso vale per le pale eoliche e altro ancora. Secondo punto: questo processo non sarà per niente gratuito, anzi sarà molto costoso. L’aspetto positivo è che genererà tanto lavoro, tante opportunità e molto business. Questi sono i due punti iniziali. Poi bisogna arrivare alla tecnologia, nel cui campo è fondamentale, anche se non ancora abbastanza sviluppata, la direct carbon capture, la cattura di carbonio dall’aria: è la soluzione che permetterà veramente di decarbonizzare e di arrivare a un punto in cui l’aumento di temperatura della Terra non supererà 1,5 °C. Senza questa tecnologia sarà molto, molto difficile, riuscirci. Un altro elemento necessario sarà la produzione di energia mediante il nucleare. Il problema di quest’ultima è che passa tanto tempo tra il momento della decisione e quello in cui s’inizia a produrre energia; un periodo che, invece, è molto più corto per l’energia solare. Quindi, dov’è possibile, è meglio puntare su quest’ultima, che può essere utile anche ad alternative preziose per i trasporti, come l’idrogeno verde (ndr: quello estratto dall’acqua con processi a emissioni zero che utilizzano corrente prodotta da fonti rinnovabili). Dunque, serve molta tecnologia: ma dobbiamo capire che è costosa e che ci sarà comunque una prima fase in cui la produzione di CO2 crescerà.

Ha citato la produzione di energia con centrali nucleari: la Commissione Europea sembra orientata a inserire questa tecnologia, insieme con il gas, nella lista degli investimenti considerati sostenibili. Condivide questa scelta? Sì, assolutamente. Bisogna essere molto pragmatici: mi piacerebbe un mondo che funzionasse solo con l’energia prodotta dal sole, dal vento e dall’acqua, ma dobbiamo essere realisti. Siamo più di sette miliardi sul pianeta, abbiamo bisogno di molta energia e dobbiamo trovarla in qualche modo. Quella del nucleare non è, ovviamente, una soluzione ideale a causa delle scorie pericolose, ma almeno non produce anidride carbonica.

Quanto alle energie rinnovabili, quest’estate ci sono stati problemi di disponibilità per la bonaccia di vento nei mari del Nord: il tema dell’incostanza della loro disponibilità può costituire un freno alla crescita di una mobilità elettrica davvero green? Il gas può essere di aiuto nelle fasi di passaggio, perché comunque genera molte meno emissioni del carbone e del petrolio, ma prima o poi le rinnovabili dovranno diventare la principale fonte di energia. Il problema dell’incostanza si risolve con i metodi di accumulo e conservazione dell’energia, che aiutano a stabilizzare la disponibilità. C’è bisogno, naturalmente, di tecnologia, ma i progressi sono notevoli, anche in termini di costi: un pannello solare oggi costa enormemente meno rispetto a un tempo e lo stesso avverrà anche per altre soluzioni.

Molti obbiettano che s’insiste tanto sulla conversione delle auto alla trazione elettrica, quando in realtà i trasporti terrestri, e in particolare le auto, costituiscono soltanto una piccola parte del problema ambientale: quindi, si sta chiedendo all’industria e ai consumatori un grande sforzo, a fronte di un risultato complessivamente modesto. Che cosa ne pensa? Sono solo parzialmente d’accordo con questa affermazione. È vero: quella dei trasporti su strada sembra una delle aree più facili da decarbonizzare, quindi si sta procedendo in questa direzione. È vero anche che le auto elettriche costituiscono una buona alternativa alle macchine con motore termico, ma non portano a una riduzione complessiva enorme delle emissioni, pur costituendo una parte importante del taglio di quelle dovute ai trasporti. Ma le auto elettriche hanno un altro ruolo importante: ridurre l’inquinamento nelle città. E su questo non ci sono discussioni. Nel 2014, quando organizzai il primo e-Prix di Formula E a Pechino, l’aria era irrespirabile, la città era inabitabile e la gente scappava: ora che si stanno imponendo le auto e gli scooter elettrici, la sua aria è molto più pulita. Secondo me è essenziale tenere presente anche questo aspetto. Poi, se l’energia utilizzata da una vettura elettrica è prodotta in maniera pulita, allora la riduzione dell’inquinamento è molto più importante.

Dunque, l’auto elettrica costituisce una soluzione particolarmente valida nell’ambito urbano? Per me il primo passo importante sarà consentire la circolazione nelle aree urbane soltanto di auto elettriche; per il secondo, cioè i viaggi sulle lunghe distanze, useremo altre tecnologie, forse l’idrogeno, almeno per i camion, forse la stessa elettricità, grazie alla ricarica ultraveloce, che utilizzeremo presto anche per le monoposto di Formula E.

I dati dell’Associazione costruttori automobilistici dimostrano però come esista una stretta correlazione tra il Pil pro capite di un Paese e la diffusione delle auto elettriche: in sostanza, più un Paese produce ricchezza, più è facile che i suoi cittadini comprino veicoli a batteria. Insomma, l’elettrico è un lusso da ricchi? Una parte del problema si risolverà con la riduzione del prezzo delle batterie, quindi delle auto: ma non è l’unica soluzione. Io, per esempio, ho investito in un’azienda indiana che produce tuk-tuk elettrici (motocarrozzette a tre ruote, ndr) venduti a un prezzo molto basso, che stiamo affidando, con un programma di finanziamento, a donne che, così, ottengono un lavoro. Bisogna vedere, dunque, che tipo di mobilità vogliamo. Nei Paesi ricchi, i grandi costruttori vogliono fare margini anche sulle auto elettriche (anche se gli utili sono inferiori a quelli che si ottengono con le vetture endotermiche), quindi propongono modelli con prezzi più alti. Oggi vediamo tante elettriche luxury o super luxury e poche di quelle piccole, il cui prezzo non è comunque bassissimo: per adesso, quindi, l’auto elettrica è ancora riservata ai più ricchi, ma il suo costo diventerà molto più competitivo.  

Lei è l’inventore del motorsport elettrico ad alto livello: quanto stanno aiutando l’immagine delle auto a batteria le gare di Formula E e di Extreme E, la nuova categoria off-road? Il motorsport sta giocando un ruolo molto importante nella normalizzazione dell’auto elettrica: ne ha migliorata l’immagine, ha avvicinato il pubblico, ha contribuito alla ricerca e allo sviluppo. Secondo me, già la sola esistenza della Formula E è un fatto importante, per l’auto elettrica.

Come sono le sue relazioni con Stefano Domenicali, ceo della Formula 1, e Jean Todt, presidente uscente della Fia, e i candidati alla sua successione? Ottime: con Stefano ho un’amicizia ventennale, con la Fia abbiamo rapporti molto stretti. Ho visto Todt a Jeddah, in occasione del Gran Premio dell’Arabia Saudita, insieme con candidati alla sua successione, ben Sulayem e Stoker, con i quali ho ottime relazioni. Sostengo sempre che Formula 1 e Formula E debbano confluire in un’unica categoria, ma per ora sono l’unico a dirlo…

Ma la Formula 1 sembra puntare sugli e-fuel… Per me possono costituire una soluzione soltanto per un numero limitato di auto, di lusso, supersportive o da corsa: a mio parere, e nessuno ha ancora dimostrato il contrario, è difficile che si possano produrre grandissime quantità di e-fuel così da poter alimentare 1,8 miliardi di macchine in giro per il mondo a un prezzo basso (il costo oggi è ancora molto alto). Inoltre, l’e-fuel produce particelle di NOx, se è utilizzato nei motori attuali, oltre che CO2, teoricamente già catturata nel processo di produzione del combustibile: se vuoi eliminare anche gli ossidi di azoto, servono motori nuovi e diversi. Forse, è solo un modo per cercare di evitare l’inevitabile.

Ma questa transizione alla mobilità elettrica, alla fine, quanto tempo richiederà? L’orizzonte del 2035 per lo stop alla produzione dei motori termici almeno in Europa è, secondo lei, plausibile? È plausibile. Anzi, in alcuni Paesi come la Gran Bretagna avverrà anche prima, nel 2030. Non credo ci saranno ripensamenti, perché anche i costruttori si stanno preparando a questo e ne trarranno profitto. Penso che la ragione per cui alcuni marchi tedeschi hanno lasciato la Formula E (Audi e BMW per ora, forse Porsche in futuro, ndr), alla quale ritorneranno fra qualche anno, è che, ora, si fanno buoni profitti con le vetture ibride: quindi, stanno approfittando degli ultimi anni in cui possono produrle, prima di passare totalmente a quelle elettriche.

Una battuta, infine, su Extreme E: che bilancio si sente di fare, di questa prima stagione? È stata molto bella, anche se molto dura: abbiamo imparato tanto, è stata una grande avventura e stiamo già lavorando sulla seconda stagione, valutando le location per il calendario. Mi piacerebbe tanto tornare in Sardegna e credo che ci siano molte possibilità che vi si faccia ancora una gara. Ce l’abbiamo fatta, anche se era difficilissimo lanciare un campionato completamente nuovo nell’era del Covid.

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